MATERNITÀ E LAVORO: IN SICILIA ANCORA FORTI DISCRIMINAZIONI PER LE DONNE

Alla vigilia della Festa della mamma, il nuovo Rapporto 2023 “Le equilibriste” di Save the Children conferma un paese spaccato in due geograficamente, ma anche a rischio futuro per il record negativo delle nascite anche nel 2022, visto che le donne si trovano spesso ad un bivio: avere figli o lavorare, specie in assenza di condizioni economiche agiate alle spalle.

Senza considerare che chi un lavoro ce l’ha, è costretta comunque a forti limitazioni nella vita professionale per conciliare famiglia e lavoro, per sopperire alla carenza di servizi pubblici – soprattutto alle nostre latitudini – pagando in prima persona per il benessere dell’intera collettività.

Ancora oggi le donne sono costrette a lasciare il lavoro.

Ciò emerge dati alla mano dalla relazione annuale sulle dimissioni volontarie delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, confermando un fortissimo divario di genere: quasi il 72% delle madri contro il 28% dei padri, le cui dimissioni sono per lo più legate al passaggio ad altra azienda e solo il 3% dei padri dichiara difficoltà di conciliazione tra lavoro e attività di cura, mentre per le donne rappresenta la difficoltà principale.

Quali sono le regioni più amiche per le donne?

Tra le regioni più amiche per le mamme svettano i “soliti noti”: la provincia autonoma di Bolzano, seguita da Emilia Romagna e Valle d’Aosta, mentre le condizioni più sfavorevoli (nemmeno a dirlo) si registrano in Basilicata, Sicilia e Campania. Classifiche che rispecchiano anche la dimensione del lavoro in cui primeggiano per occupazione femminile Emilia Romagna, Piemonte, Valle d’Aosta e la Lombardia e quelle che invece lasciano le mamme a casa, come la nostra Sicilia.

Del resto nella mia esperienza decennale di Consigliera di Parità, devo dire che ancora oggi i casi più frequenti di segnalazione che pervengono al mio ufficio, riguardano discriminazioni legati alla maternità, come ad esempio il demansionamento al rientro, cambio di sede, mancato riconoscimento di tutele a volte fatte apposta per scoraggiare la lavoratrice ed indurla alla risoluzione del rapporto di lavoro, oppure diniego da parte del lavoro a richieste di part-time a lavoratrici con difficoltà a conciliare lavoro e famiglia.

Quindi non meravigliamoci se poi le donne sono costrette a lasciare il lavoro oppure scegliere di non diventare madri o di rinviare la maternità.

Eppure il lavoro di cura non viene nemmeno riconosciuto.

Non viene riconosciuto nemmeno il valore sociale oltre che economico del lavoro di cura: attività complessa che richiede energia, tempo, risorse comprendendo la cura dei figli, l’accudimento degli anziani, di tutto quel lavoro domestico non retribuito ed invisibile, quello che si fa in casa, c’è ma non si vede.

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Lavoro che ha un costo monetario seppur virtuale, fino a quando non lo affidiamo all’esterno, che non è solo un esercizio di economia applicata, ma la testimonianza scientifica di una gigantesca ingiustizia sociale che scaturisce dalla rigida divisione dei ruoli tra uomini e donne, attribuendo alle

donne in modo sproporzionato la responsabilità del lavoro di cura, come se facesse parte integrante dell’identità femminile.

Ma sappiamo bene che oltre al valore economico, ha anche un altissimo valore sociale questo lavoro di cura svolto gratuitamente: pensiamo a quelle persone affette da disabilità cosi’ dipendenti dai loro caregiver (familiari e donne) da non poter letteralmente sopravvivere senza il loro lavoro che richiede anche una complessità assistenziale, familiari e donne che magari devono lasciare il lavoro, perché non possono essere sostituite nemmeno per poco tempo.

Tutto ciò penalizza le donne.

Questa “femminilizzazione” del lavoro di cura comporta per le donne scelte spesso difficili sul piano personale, penalizzandole nel lavoro, per la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Difficoltà che spesso arriva in un arco temporale in cui al contrario gli uomini consolidano competenze e carriere professionali, mentre per le donne significa una ricaduta negativa sulle dinamiche di carriera e di retribuzione che le porterà anche ad essere pensionate povere.

Le diseguaglianze di genere si acuiscono con il passare degli anni sino a toccare la loro punta massima al momento della pensione, come è emerso nel corso di un recente seminario dal titolo “Le scomode cifre dell’Italia delle donne” organizzato dal Consiglio Nazionale degli Attuari con Noi Rete Donne, che ha visto la partecipazione – tra gli altri – dell’ex ministra del Lavoro Elsa Fornero e del giuslavorista Giuliano Cazzola. In particolare, nel 2021 la pensione media lorda di una pensionata era di 1.321 euro: più di 600 euro in meno dei 1.970 dell’assegno medio degli uomini pensionati.Così che nell’età più delicata, quella da pensionate, sono destinate ad essere più povere e quindi più fragili.

Necessario promuovere una maggiore condivisione delle responsabilità familiari tra donne e uomini.

Ciò consentirebbe di superare la visione della conciliazione vita-lavoro quale problema prettamente femminile, favorirebbe direttamente e indirettamente l’occupazione femminile. Ed è importante riconoscere che questo lavoro gratuito è un contributo alla ricchezza di tutti e per questo va riconosciuto anche ai fini pensionistici, perché indirettamente produce un valore reale per la collettività.

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Durante la pandemia del Covid-19 è emersa con evidenza la necessità e l’urgenza di garantire la disponibilità di servizi universali: il carico addizionale associato al Covid-19 per la cura della famiglia e l’assistenza è ricaduto, ancora una volta, principalmente sulle donne, che sono state anche in prima fila nelle professioni più esposte al contagio, da quelle del settore sanitario, nei supermercati, nelle imprese di pulizie.

Nel nostro paese c’è bisogno di riconoscere e redistribuire il lavoro di cura non retribuito, che non può essere considerato un fatto privato delle famiglie, ma serve costruire una vera rete di servizi per la non autosufficienza, di una integrazione strategica tra sistema sanitario e sociale, di adeguare i servizi per l’infanzia rendendo i nidi un servizio universale e accessibile a tutti.

Tutto ciò ha conseguenze sulla crescita economica e sulla sostenibilità del sistema sociale.

Non ci vuole molto a riconoscere che le conseguenze della denatalità costituiscano un freno alla crescita economica e all’intera sostenibilità del sistema sociale. Infatti con l’allungamento dell’età media, aumenta il peso della popolazione anziana producendo squilibri generazionali con conseguenze nel medio e lungo periodo.

Alcune proposte?

Non vi è dubbio che per favorire la ripresa della natalità nel nostro Paese e nella nostra Regione è necessario investire in più direzioni:

– promuovere l’occupazione femminile attraverso incentivi o sgravi contributivi alle assunzioni a tempo indeterminato di donne: ricordiamo che il tasso di occupazione femminile in Sicilia è del 29,1% contro il 65% dell’Emilia Romagna ad esempio. Oggi mantenere un bambino è considerato quasi un lusso, se le donne non lavorano non vorranno mettere al mondo bambini poveri. Inoltre, quando le donne lavorano generano altro reddito, in quanto vengono affidati ad altri soggetti (colf, baby sitter, bandanti) quei lavori che le donne svolgevano a casa gratuitamente, mettendo in moto l’economia;

– agevolazioni al rientro al lavoro dalla maternità e sostegno alla natalità;

– sperimentazione di una organizzazione flessibile del lavoro, ai fini della conciliazione lavoro-famiglia;

– incentivi alle aziende che sostengono progetti di conciliazione lavoro-famiglia;

– incentivi per l’imprenditoria femminile e la formazione imprenditoriale;

– servizi per l’infanzia e per l’assistenza di anziani e a sostegno della non autosufficienza, visto che con l’allungamento dell’aspettativa di vita e dell’età pensione, ciò grava sulle famiglie e in particolar modo sulle donne ad es. l’accudimento dei genitori anziani.

Su questi temi, vorremmo un serio impegno anche dalla nostra Regione affinché chi nasce al sud abbia le stesse opportunità di chi nasce al nord.

 

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