Fin dall’infanzia ciascuna donna, coltiva dentro di sé l’idea di essere capace di procreare un figlio, così come lo è stata la propria madre. Le bambine fin dai primi anni di vita, giocando con le bambole, esprimono un primordiale desiderio di maternità.
Anche se il desiderio di maternità non è presente e forte in ugual misura in tutte le donne, certamente il divenire madre fa sentire la donna più completa, le dà la possibilità di sentirsi piena, perfetta, di sperimentare il corpo come potente, produttivo.
In passato, la maternità era vissuta “come destino” in quanto non era possibile controllare le nascite e non vi era la possibilità di attuare cure mediche in grado di consentire la procreazione. Oggi il progresso medico consente a molte donne sterili la possibilità di diventare madri. Le donne, oggi, possono decidere il periodo della propria esistenza in cui dedicarsi alla maternità. La donna può decidere di avere un bambino, “quando voglio” , “come voglio” e “se lo voglio”.
LA PAURA DELL’INFERTILITÀ.
Ma la “sterilità” volontaria acuisce la paura dell’infertilità, paura spesso presente nella donna, che viene superata con la prima gravidanza. Senza la maternità, la donna rimane priva di una identità accettata, o addirittura è caricata di identità negativa. Non avere figli è un fatto legato a un “rifiuto” o a una “mancanza”.
I moderni metodi contraccettivi da un lato e le pratiche di procreazione medicalmente assistita dall’altro, hanno aumentato la fiducia della donna nella possibilità di poter “gestire” il proprio corpo. La donna può decidere di autodeterminarsi e rimandare la gravidanza aspettando il momento in cui “sarà pronta”. Il confronto delle donne con la nuova idea di maternità, caratterizzata dal controllo della fecondità e, dalla possibilità di intervenire medicalmente su di essa attraverso la procreazione assistita, le pone al cospetto di scelte un tempo impensabili. Scelte, che le costringono a confrontarsi con nuovi fantasmi che possono condurre a forti vissuti depressivi.
STERILITÀ O INFERTILITÀ?
Occorre fare una distinzione tra sterilità e infertilità.
La sterilità è la situazione di una coppia in cui uno o entrambi i membri della stessa sono affetti da una condizione fisica permanente che non rende possibile il concepimento. Questo si verifica ad esempio in caso di azoospermia, di menopausa precoce o di assenza di utero congenita.
Il termine infertilità, al contrario di sterilità, non si riferisce ad una condizione assoluta, bensì ad una situazione potenzialmente risolvibile e legata ad uno o più fattori interferenti. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità può definirsi infertile una coppia che non riesce a concepire dopo 12/24 mesi di rapporti non protetti e mirati.
Diversi sono i fattori che possono ostacolare la possibilità di concepimento, incidendo in maniera uguale sia sugli uomini che sulle donne. Tra questi: l’età avanzata, l’uso di droghe (compreso l’uso di steroidi anabolizzanti nello sport), l’abuso di alcool, il fumo, infezioni sessuali maschili e femminili, obesità o magrezza eccessiva (entrambe possono causare squilibri ormonali e mestruali). O ancora carenza di acido folico nelle donne, fattori psicologici e/o emotivi, fattori come impotenza e vaginismo o endometriosi.
QUANDO NON SI RIESCE A PROCREARE.
Purtroppo ancora oggi, l’infertilità resta un tabù da sconfiggere e spesso crea grossi problemi all’interno delle coppie, anche delle più affiatate. Quando una coppia riceve una diagnosi di infertilità, si trova ad affrontare una vera e propria crisi che investe l’area privata, sociale e relazionale. Riuscire a fare il lutto della maternità e della paternità, non è un processo semplice, così come non è facile per una coppia decidere di ricorrere ad una delle tecniche di procreazione assista e, ancora di più, all’adozione.
Costruire la propria identità non è un processo semplice e non è mai definitivamente acquisito e la capacità di “riparare” l’impossibilità di concepire un figlio naturale è esito di un arduo lavoro psichico.
Gli aspetti emotivi profondi in gioco sono molti e complessi. In ogni maternità c’è un certo grado di ambivalenza “normale” (dovuto alla contemporanea presenza di sentimenti opposti nei confronti del figlio). Se l’ambivalenza diventa “patologica” questo non dipende dalla fertilità naturale o “artificiale” della donna ma dalla sua predisposizione psicologica ad accogliere dentro di sé l’altro. Decidere di avere un figlio non è scontato e neanche automatico. Dovrebbe essere l’esito di una maturazione affettiva individuale che ha reso possibile l’incontro con un partner adeguato alla condivisione del progetto generativo.
La scoperta di limiti biologici alla possibilità di un concepimento naturale determina nella coppia, l’inizio di profonde e impegnative contrattazioni psicologiche personali e di coppia. Una battaglia segnata da bombardamenti ormonali e, soprattutto, da quelli emotivi, vissuti in solitudine per il bisogno di proteggersi dai forti pregiudizi della società.
Un improvviso cambiamento dell’immagine di sé, il lutto per l’interruzione della discendenza familiare “di sangue”. Un percorso che spesso dura anni in cui nuovi e differenti equilibri, mettono a dura prova le energie della coppia. La donna che non riesce a concepire un figlio deve fare i conti con sentimenti di rabbia e di depressione per un corpo che non “funziona”, che si rifiuta di generare la vita, compito evolutivo che da sempre contraddistingue l’identità femminile.
COME SUPERARE IL TRAUMA.
La ferita nel corpo diventa una ferita nella mente. Procedure mediche invasive, dolorose e talvolta anche mortificanti, minacciano gli ambiti più significativi del legame di coppia. Dunque una coppia che non riesce a procreare va incontro ad una serie di costi emotivi, fisici e finanziari spesso difficili da sostenere. E’ pertanto importante che possa avere intorno a sé un tessuto familiare e relazionale in grado di ascoltarla e supportarla nei momenti più bui e difficili di questo duro percorso.